Non solo estorsione, come già più volte affermato, ma anche autoriciclaggio per l’imprenditore che costringe i dipendenti ad accettare buste paga più magre di quelle formalmente concordate e a lavorare per un orario superiore a quanto contrattualmente previsto. Non solo. A rispondere per autoriciclaggio è anche la società, sulla base del decreto 231 del 2001, alla quale è contestato l’avvenuto impiego nell’attività imprenditoriale del denaro frutto dell’estorsione continuata, in maniera tale da ostacolare concretamente l’identificazione della provenienza delle somme. Lo stabilisce, con una lettura innovativa, la Corte di cassazione con la sentenza 25979/2018 della Seconda sezione penale depositata ieri. La pronuncia conferma così la misura cautelare del sequestro finalizzato alla confisca a carico dei vertici di una srl.
La difesa aveva sostenuto, tra l’altro, l’inesistenza delle condizioni per la contestazione dell’autoriciclaggio, valorizzando la concretezza dell’ostacolo che deve essere realizzato. Ma la Cassazione, ricorda innanzitutto che l’articolo 648ter.1 del Codice penale punisce le attività d’impiego, sostituzione e trasferimento di beni o altre utilità poste in essere dallo stesso autore del delitto presupposto che ostacolano la ricostruzione della matrice illegale.
È cioè necessario che la condotta abbia un elevato grado di dissimulazione: per questo vengono ad assumere rilevanza penale «tutte le condotte di sostituzione che avvengano attraverso la reimmissione nel circuito economico-finanziario ovvero imprenditoriale del denaro o dei beni di provenienza illecita finalizzate a conseguire un concreto effetto dissimulatorio che sostanzia il quid pluris che differenzia la condotta di godimento personale, insuscettibile di sanzione, dall’occultamento del profitto illecito penalmente rilevante».
Definita la cornice, la sentenza osserva poi, nel caso concreto, che il rastrellamento di liquidità attraverso l’attività di estorsione ai danni dei lavoratori, concretizzata tra l’altro nel mancato versamento delle quattordicesime, degli anticipi versati solo formalmente, del corrispettivo dei permessi non goduti, era poi servito a pagare provvigioni o altri benefit aziendali in nero a favore dei venditori della società. In questo modo, fondi illeciti venivano reimmessi nel circuito aziendale, con un’azione elusiva dell’identificazione della provenienza illegale della provvista.
Non regge allora la tesi della difesa per la quale, ai fini dell’autoriciclaggio, hanno rilevanza solo quei comportamenti che hanno come conseguenza un cambiamento della formale titolarità del bene. La Cassazione, infatti, ricorda che la condotta di autoriciclaggio non presuppone un trasferimento fittizio a un terzo dei proventi del reato presupposto, «in quanto l’eventuale coinvolgimento di un soggetto “prestanome” impedisce di ricomprendere tale ulteriore condotta in quelle operazioni idonee a ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa dei beni indicate nel predetto articolo 648-ter1 e riferibili al solo soggetto agente del reato di autoriciclaggio».
Non ha retto poi all’esame della Cassazione neppure il riferimento fatto dalla difesa a un precedente della stessa Corte, che aveva escluso l’autoriciclaggio nel caso del versamento dei proventi di un furto su una carta di credito prepagata intestata allo stesso autore del reato presupposto. Si tratta di una condotta priva di quella capacità dissimulatoria, avverte ora la Cassazione, che invece è richiesta dal Codice penale.
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